Gennaio 26, 2020
LA LETTURA, Il Corriere della Sera, 26 gennaio 2020. Pezzo autografo di Stefano Bollani, in occasione del 50esimo anniversario dell’uscita dell’album JESUS CHRIST SUPERSTAR.

Regno Unito, albori degli anni ’70. Andrew Lloyd Webber e Tim Rice si mettono in testa di scrivere un’opera, per la precisione una rock opera sulla passione di Gesù. Un paio di incontri con possibili finanziatori e capiscono che portare il progetto su un palco risulta troppo complicato. Decidono allora di farne un disco. Prima un singolo (Superstar) poi un intero album, uscito nel settembre 1970. Quella che in seguito diventerà una piece allestita prima a Broadway poi a Londra, e più tardi ancora, nel 1973, un capolavoro del cinema per la regia di Norman Jewison, è una partitura ricca di idee, trovate, suggestioni, realizzata a cuore aperto e mente in fibrillazione da due ragazzotti inglesi poco più che ventenni, uno (Lloyd Webber) nato in seno ad una famiglia di musicisti classici, padre compositore e organista, fratello violoncellista, l’altro (Rice) all’inseguimento della carriera da cantante pop. Nell’Inghilterra dei Beatles tutto sembra possibile, ergo tutto È possibile, persino mettere in bocca i dubbi di tutti noi a Giuda Iscariota circondato da un coro di soul girls. La coppia Lloyd Webber-Rice ha precedenti nel teatro musicale; si sono fatti notare grazie ad uno spettacolo per bambini, Joseph and the amazing technicolor dreamcoat, tratto dalla storia biblica di Giuseppe, uno dei figli di Giacobbe. Quando il loro singolo Superstar riscuote un successo particolarmente florido sul mercato americano, i due si mettono d’impegno a scrivere l’intera opera. Immaginano insieme la struttura del racconto e i temi da affrontare nelle canzoni. Delineano a grandi linee le emozioni che stanno dietro ad ogni brano, quindi Lloyd Webber dà una forma musicale a queste emozioni e in seguito Tim Rice aggiunge i testi. Terminano la partitura in poche settimane e entrano in studio. Per la session di registrazione di Jesus Christ Superstar si fanno le cose in grande. L’orchestra sinfonica viene affiancata da un gruppo rock. Il cast dei cantanti è eterogeneo e pieno di talento, dall’esordiente Yvonne Elliman (Maria Maddalena), scoperta da Lloyd Webber in un pianobar, al famosissimo Ian Gillan (Gesù), lead singer dei Deep Purple. E se c’è bisogno di forti tinte contemporanee per donare appeal a questa storia datata duemila anni fa, sarà il caso di affidarsi a musicisti pieni di energia. Bassista, batterista e i due chitarristi vengono dalla Grease Band, il gruppo che accompagnava Joe Cocker ai concerti. Lunghe prove dei quattro, fianco a fianco col compositore, portano a cristallizzare quella che oggi conosciamo come la partitura vera e propria e che Lloyd Webber tiene a sentire eseguita con esattezza nota per nota, oggi come allora. C’è voglia di stupire e scandalizzare, in Jesus Christ Superstar? All’epoca di cui parliamo, stupire e scandalizzare è la norma e i due verbi sono molto presenti all’interno del dibattito artistico. A sorpresa, la parte più stupefacente di questa rock opera è il suo slancio verso il mito, la voglia di dipingere con molti colori una storia fondante della nostra cultura e del nostro modo di vedere le cose. Se, come diceva Joseph Campbell, “Il mito apre il mondo alla dimensione del mistero”, quello di Gesù è il mito per eccellenza. Ci mette di fronte ad una serie di misteri, primo fra tutti quello della morte. E ci mette alle strette di fronte ad un argomento-chiave: cosa fare della nostra vita, che vocazione seguire, cosa siamo disposti a lasciare e a donare. Mille argomenti che la musica aiuta rendendoli vivi, palpitanti. I temi musicali si rincorrono in continuazione durante le tracce del disco. Sono quanto di più vario si possa immaginare. Si va da brani pensati su tempi poco utilizzati nel rock (Il 5/4 di Everything’s alright, il 7/4 di The temple) a suggestioni provenienti da autori del primo novecento (nell’ouverture del disco c’è una citazione piuttosto evidente che viene dal balletto L’ Uccello di fuoco di Igor Stravinsky) arrivando poi a melodie piane, semplici, talmente semplici e pure da vincere ogni polemica e finire nel songbook della chiesa italiana. The last supper, brano che gli apostoli cantano in tono dimesso durante l’ultima cena, negli anni ’80 veniva rivestito con una preghiera attribuita a San Francesco diventando “Dov’è odio fa ch’io porti amore” e, imbracciata una chitarra, veniva cantato in coro durante la messa. Probabile che molti preti ignorassero la provenienza profana della melodia, altrimenti avrebbero preso di certo qualche provvedimento. Quello che succede a Gesù può succedere a tutti noi: Gesù si carica il peso del mondo sulle spalle e ne viene travolto. Facile, da parte nostra, provare empatia. Ancor più facile, si rendono conto Lloyd Webber e Rice in fase di ideazione dell’impalcatura del disco, è provare empatia per Giuda. Così, in Jesus Christ Superstar assistiamo a numerose trasformazioni dei sentimenti di Giuda nei confronti di Gesù. Da amore a tradimento, quindi al pentimento e al conseguente castigo auto-inflitto. La figura musicale che lo accompagna all’inizio del disco è la stessa che in seguito fa da sfondo al suo suicidio. E’ un ostinato di sei note che, come la mente di Giuda, si avvita su se stesso. Piccolo capolavoro in sè, è composto da tre re, un mibemolle e un do che va a cadere sul re, tornando dunque a casa per ricominciare. Se sei uno degli apostoli, il tuo canto giustamente ruota intorno al Re (dei Giudei). Eh già, diranno subito i miei piccoli lettori, ma Lloyd Webber è nato a Londra e quella nota la chiama col suo nome inglese, che poi è semplicemente una lettera dell’alfabeto, la D. Bene, allora – solo per voi – facciamo che il canto di Giuda ruota intorno a D (Divinity). Ora continuiamo. Persino Ponzio Pilato, personaggio che il catechismo rende piuttosto monodimensionale, qui emerge nella sua statura di figura mitica. Uomo pieno di dubbi, vede il proprio potere in pericolo, accerchiato dalla classe dei Sommi Sacerdoti che ambisce ad una punizione esemplare per quel bamboccio che si dice messia. Il quale messia chiaramente non farebbe del male ad una mosca e potrebbe essere lasciato andare. Soprattutto dopo che un sogno premonitore ha mostrato a Pilato che il mondo – in futuro – darà la colpa a lui per la morte di quell’ innocente. Va detto: Il sogno, nei racconti biblici, viene fatto dalla moglie del procuratore romano Ponzio Pilato mentre lui dormiva sonni sereni. Questa è solo una delle tante licenze che gli autori si prendono riguardo alla storia. Altro viene da vangeli apocrifi, per loro stessa dichiarazione. In ogni caso, come sappiamo, i Vangeli che narrano della vita di Gesù, se messi uno accanto all’altro, rivelano molte differenze fra loro, la maggior parte sostanziali. Il personaggio Gesù cambia parecchio, da vangelo a vangelo. Spesso la sua vicenda è palesemente ricalcata su quella di Mitra, suo diretto ispiratore, altre volte invece se ne distanzia. Quello che interessa a Lloyd Webber e Rice del racconto della Passione di Gesù è il suo essere clamoroso catalizzatore di temi universali e eterni: l’amore, l’amicizia, il destino, la giustizia terrena e i suoi limiti evidenti, per tacere di tutto quel che consegue alla morte del Cristo. Wilhelm Reich scrisse un intero libro sull’argomento, per ricordarci quanto con le nostre azioni persistiamo nell’uccidere il Cristo che è in noi e quanto con la nostra testa insistiamo nel creare elaborati sofismi per giustificarci. Se solo mantenessimo il cuore caldo e la mente aperta, potremmo essere costantemente guidati dall’Amore e dall’Estasi. Le polemiche furono pressanti all’epoca. Gesù – in questo racconto rock – muore sulla croce. Fine del disco. E la resurrezione? Nessuno ne parla. E la sua provenienza divina che gli dava poteri sovrannaturali? Macchè, nessuna traccia di miracoli. Solo Erode nella propria canzone accenna alle capacità particolari di Gesù ma lo fa in maniera alquanto sarcastica (fra le tante, “Prove to me that you’re no fool/ Walk across my swimming pool”, traduzione “Dimostrami che non sei un buffone/ Attraversa a piedi la mia piscina”). Lo fa su una musica/sberleffo, calata in un paesaggio sonoro da America primo novecento, completamente slegata dal contesto della rock opera in cui si trova inserita. King Herod’s song infatti è l’unico brano di Jesus Christ Superstar che esisteva prima ancora dell’ideazione dell’opera. Con un testo differente e il titolo di Try it and see, era stato inciso – pensate un po’ – da Rita Pavone. Vedete?! La vastità di spunti che arrivano dal capolavoro di Lloyd Webber e Rice è tale da consentire di passare da Rita Pavone a Gesù nello stesso paragrafo. E allora torniamo al protagonista dell’ opera. Via i miracoli e via la resurrezione, ecco quel che rimane: in questo racconto della Passione, Gesù è un uomo. “Heal yourselves”, urla Ian Gillan-Gesù nel disco quando viene accerchiato dai lebbrosi che vogliono essere toccati e guariti. “Guaritevi da soli”. Sembra l’urlo esasperato di un uomo che si sente schiacciato dal peso che sta portando. Ma è anche un clamoroso invito rivolto ad ognuno di noi. Caro Essere Umano, continui a guardarti intorno in cerca di aiuto. Prova a guardarti dentro, c’è tutto quel che ti serve per guarire. Trova il punto di equilibrio fra il tuo corpo che sta vivendo una vita terrena e la tua anima che, libera dalla questione spazio-tempo, sa e sente di essere Figlia di Dio, cioè Forza Creatrice. Se nel fare questo percorso hai bisogno di aiuto, niente panico. C’è il rock inglese pronto a darti una spinta.  

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